Un’interessante mostra fotografica esposta qualche mese fa al Museo Nazionale Storico degli Alpini -che ha fatto da contraltare allo specifico settore espositivo già presente nel Museo- ha permesso al pubblico di riscoprire una parte della storia delle Penne Nere decisamente poco nota e di cui esistono solo scarse e frammentarie notizie, solitamente riportate in rare pubblicazioni di letteratura memorialistica o basate su racconti personali dei pochi superstiti: quella che accomunò moltissimi ufficiali e sottufficiali degli Alpini agli  “ascari” del RCTC, il Regio Corpo Truppe Coloniali, al comando dei quali prestarono servizio. I loro nomi sono innumerevoli e non è possibile raccontare tutte le loro storie personali, dense di avvenimenti: ci limiteremo pertanto ad un excursus generale e ai nomi più noti.

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Fin da quando, alla fine dell’800, i primi soldati italiani misero piede a Massaua, allora piccola città portuale dell’Eritrea sulle sponde del Mar Rosso, si ritenne opportuno arruolare del personale locale per i più svariati compiti; il primo centinaio di questi “soldati coloniali” chiamati basci buzuck (letteralmente “teste sventate” o “teste matte”) iniziarono il loro servizio nel 1885.

Già nel 1888 divenne però evidente la necessità di costituire dei reparti indigeni più organizzati organicamente: vennero così creati 4 Battaglioni di ascari ( termine derivato dal vocabolo arabo-turco “askar”, soldato) al comando di ufficiali italiani.

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Come vedremo, molti di questi ufficiali (e sottufficiali) saranno presi in futuro dalle Truppe Alpine, sia per la loro preparazione, sia perché abituati ad operare in terreni impervi ed in assoluta autonomia. Moltissimi saranno i Quadri degli Alpini che, al di là delle assegnazioni “d’ufficio”, faranno specifica richiesta di essere assegnati al comando degli ascari, considerati ottimi e fedelissimi soldati.
Comandare una truppa coloniale in realtà non era molto dissimile da comandare gli Alpini: si doveva innanzitutto imporsi con l’esempio, sempre primi e davanti a tutti nella battaglia e nelle marce e sempre ultimi nei privilegi; ottenuti in questo modo il rispetto e la fiducia degli uomini, si poteva chiedere loro qualsiasi sacrificio. Gli ascari ed i dubat (letteralmente i “turbanti bianchi” dal nome del loro copricapo), una volta che decretavano che il loro ufficiale era “Ambesà”, un leone, (cioè un coraggioso), diventavano orgogliosamente tutti suoi figli e lo avrebbero seguito ovunque al grido di “Arrai!” (avanti!).
Come ebbe a scrivere il Maresciallo De Bono: “Occorrono,  per comandare reparti indigeni, ufficiali dotati di speciali qualità. L’ufficiale di reparto indigeno non si improvvisa, anche quando possiede la passione coloniale ed ha elevati lo spirito ed il senso militare. Occorre un tirocinio fatto sotto i vecchi del mestiere che hanno acquistato il fiuto delle truppe che comandano. Questi Ufficiali hanno in loro qualche cosa del lanzichenecco; al momento buono sono quelli che si prestano a qualunque più pazza impresa, sicuri che i loro ascari li seguono senza che essi, in testa sul muletto, sentano il bisogno di voltarsi per verificare se qualcuno li segua.”

I soldati indigeni avevano molto in comune con gli Alpini: fieri, tenaci e resistentissimi nelle marce, abituati alle fatiche e alla frugalità, erano attaccatissimi ai loro comandanti se questi sapevano, come abbiamo visto, dimostrare “sul campo” il loro valore.

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Gli ascari, in particolare quelli eritrei, avevano poi tra l’altro un profondo senso (un vero culto) della giustizia. Per loro l’arruolamento era un vero e proprio contratto bilaterale con il Governo ed entrambe le parti dovevano mantenere i patti, senza transazioni o imposizioni. Se venivano commesse ingiustizie, loro facevano l’abièt (la giustizia letter.): quando al reparto schierato veniva dato il riposo, tutti restavano indefinitamente sugli attenti; cosa che veniva presa decisamente sul serio.
Un problema in più rispetto agli Alpini - che peraltro a loro volta parlavano dialetti spesso incomprensibili a quelli di altre valli - si poteva avere con la lingua e in particolare con i termini locali o italiano-locali (spesso storpiati) usati dagli ascari in una sorta di “lingua franca”.  Innanzitutto  l’uso del “tu” era nella norma;  inoltre al verbo essere fu sempre sostituito “stare”: “tu stare Ambesà, signor Tenente, tu stare forte!”, dicevano i furbi ascari per non essere messi in servizio di “sentilina” (sentinella), preferendo andare alla “tecceria”, una specie di osteria locale dove per “soldi tannisc”(monete da 10 centesimi) venivano serviti il “tecc” (vino di miele), la “talla” (sorta di birra locale) od il “ciài”( un thè forte e scuro).
Gli “ascari” (soldati semplici), i “muntaz”(caporali) ed i “buluc basci” (sergenti) con i loro “tarbusc” (tipico copricapo tronco-conico di feltro rosso), avevano una paura terribile del “basciai” (Capitano, spesso al comando di Banda o di un Battaglione) ed ancor di più del “coronelli” (Colonnello), ma gli ufficiali “frengi” (bianchi) erano i loro “guitana” (signori), per i quali avrebbero potuto anche “morillo” (morire) in combattimento. Quando stavano male (“avere male tutta vita”), questi coraggiosi soldati si rivolgevano all’ ”achim” (saggio; l’ ufficiale medico) per scacciare i “buda” (spiriti maligni).

Equipaggiati alla leggera, gli ascari dormivano per terra coperti al massimo con la “mantinella” (mantellina) e per “mangerìa” (cibo) si nutrivano principalmente di “burgutta”, una specie di pane fatto sul posto con una schiacciata di farina cotta al fuoco del bivacco, condito con salse a base di “berberè” (peperoncino locale, fortissimo).

In operazione e nelle marce sulle “ambe”(montagne), erano infaticabili; armati con i “maniscèr” (fucili Mannlicher) o con gli “alpìn” (curioso nome dato al fucile ’91), essi combattevano coraggiosamente i nemici, gli “arbegnuocc” (i ribelli) e gli “sciftà” (ladroni), che erano armati con i “guradè” (scimitarre abissine), con gli “ociafò” (vecchi fucili Vetterli) ed i “moscof” (vecchi fucili russi). I nostri indigeni inseguivano questi “afer belà” (dispregiativo: mangiatori di terra) e “fandia belà” (mangiatori di letame), finchè essi non gridavano “abièt,abièt” (pietà, giustizia).COLONIALI 4

I quattro Battaglioni di soldati coloniali indigeni neoformati a metà ‘800 presero parte a tutte le battaglie degli anni successivi, compresa quella di Adua (1896),  nella quale combatteranno fianco a fianco con gli Alpini del Tenente Colonnello Menini.
Nel 1902, un ulteriore riordinamento portò alla creazione del Regio Corpo Truppe Coloniali dell’Eritrea.

Nei possedimenti italiani della Somalia, intanto, ai primi sperimentali reparti di “ascari del Benadir” se ne erano aggiunti altri, fino alla creazione, nel 1905, del Regio Corpo di Truppe Indigene del Benadir (che nel 1908 diverrà Regio Corpo  Truppe Coloniali della Somalia   Italiana). Il primo comandante delle truppe somale sarà il Maggiore degli Alpini Pietro Mozzoni, che avrà come ufficiale subalterno il Tenente (sempre Alpino) Antonio Negri-Cesi, tra l’altro perfetto conoscitore della lingua araba.

COLONIALI 5I Battaglioni eritrei erano frattanto diventati 13 e furono creati anche reparti misti “arabo-somali” con ascari che provenivano dallo Yemen o dall’Hadramut e con le esigenze della guerra Italo-Turca del 1911-1912, pressochè tutti i reparti coloniali furono inviati in Libia per partecipare alle operazioni ed alla successiva occupazione. Faceva parte del Comando del Corpo di Spedizione in Tripolitania anche il già citato Tenente Negri-Cesi, che nel 1913 sarà promosso Capitano ed inviato - con l’incarico di “residente”- nella regione degli Orfella, centro dell’accanita resistenza araba. Attraverso trattative personali, egli indusse ben presto i capi ribelli a sottomettersi, riuscendo così a pacificare la regione; per questo importante risultato venne insignito dell’ordine Militare di Savoia.

Nel 1924, un valoroso Alpino della Grande Guerra, il Ten. Col. Camillo Bechis, fu nominato Commissario della Regione di confine della Somalia ed ebbe anche il comando delle neonate Bande di Confine, formate dai fedelissimi soldati locali, i dubat (i “turbanti bianchi”, dal nome del loro copricapo) che ne garantivano la sicurezza. Con questi uomini, che divennero leggendari per il loro ardimento, l’infaticabilità e la capacità combattiva, Bechis operò per la sottomissione dei Migiurtini e poi, ceduto il comando al capitano Ottavio Rolle (anch’esso Alpino), operò a livello direttivo per la totale occupazione dei territori del Nogal e di Obbia. Ritroveremo Bechis e Rolle anche nel conflitto italo-etiopico del 1935/36: il primo al comando delle vittoriose bande dubat nel sottosettore dell’Ogaden ed il secondo come comandante di un Gruppo Bande nel bassopiano orientale.

Negli anni ‘20 molti altri ufficiali Alpini furono al comando di reparti coloniali indigeni: l’allora Tenente Luigi Borchis, già ufficiale anche dei meharisti libici, comanderà bande dubat in Migiurtinia e poi, da Capitano, in Oltregiuba; altri comandanti di dubat furono i Capitani Longana, Belotti, Fant (che guadagnò una Medaglia d’Argento e una di Bronzo al Valor Militare) ed i Tenenti Gherardi, Castiglione e Staudacher (Medaglia d’Argento al Valor Militare).

Altri ufficiali Alpini servirono in  reparti coloniali eritrei, come il Cap. Glarey (XV Btg. Eritreo), il Ten. Marchino (al III e poi al IX Btg.) e il Ten. Camin (X Btg.).COLONIALI 10

I reparti coloniali intanto andavano ulteriormente aumentando e a quelli eritrei e somali si erano aggiunti anche i reparti libici del Regio Corpo Truppe coloniali della Libia (nel 1938, i Libici saranno considerati cittadini italiani e sarà formato il Regio Corpo Truppe Libiche).

Anche con questi soldati troviamo ufficiali Alpini, come il Cap. Fabbri (Medaglia d’Oro al Valor Militare) del VI Btg. Libico, che cadrà a Bir Tagrift nel 1928.

Il conflitto in Africa Orientale del 1935-36 vedrà una grande ulteriore mobilitazione di reparti coloniali indigeni ed un conseguente considerevoleCOLONIALI 12 aumento dei quadri nazionali ad essi assegnati, tra i quali, viste le caratteristiche del terreno d’operazioni, molti altri ufficiali degli Alpini che non mancarono mai di comportarsi con onore, come vuole la tradizione delle Penne Nere. Tra i molti che caddero durante il conflitto meritandosi la massima onorificenza militare - la Medaglia d’Oro al Valor Militare - ricordiamo il 1° Capitano Silvio Paternostro (LIV Btg. Coloniale), il Capitano Arena, (già del 4° Alpini e poi comandante  del VII Btg. Eritreo), ed i Tenenti Andolfato (IV Btg. Arabo–Somalo), della Noce e Abate (entrambi del IX Btg. Coloniale).

Spesso, gli stessi ascari, che consideravano i loro comandanti come dei veri “padri”, erano esultanti se a comandare il loro Battaglione era un ufficiale degli Alpini, come nel caso del V Btg. Eritreo, comandato dal Maggiore Boccolari, del VIII Eritreo del Maggiore Majani o del XXIX Btg. Coloniale al comando del Maggiore Luigi Peluselli. Lo stesso Peluselli poi, nel 1941, difenderà Cheren al comando del Btg. Alpini Uork Amba, unico reparto Alpino rimasto in A.O.I..

La Seconda Guerra Mondiale segnerà il tramonto del nostro Impero coloniale e vedrà l’ultimo impiego delle nostre truppe africane, con le quali sottufficiali ed ufficiali Alpini, anche di alto grado, continuarono a combattere: il Generale Graziosi (già valoroso ufficiale Alpino in Libia e nella Grande Guerra) ed il Col. Pialorsi comandarono due Brigate Coloniali, rispettivamente la XV e la I Brigata. Il Maggiore Giovanni Favero Serponti comandò il CXCII Btg. Arabo-Somalo, combattendo sull’Uebi Gestro, mentre nella regione dei Laghi, dove sarà ferito, combatterà il comandante del LIV Btg., Maggiore Ramacci. Per la difesa di Celga combatté il Capitano Mina, al comando interinale del XXIX btg. e infine a Cheren, dove venne posta la più estrema resistenza in Africa Orientale Italiana contro le truppe del Commonwealth, durata dal 2 febbraio al 27 marzo 1941, troviamo il LXXX Btg. Coloniale al comando del Ten. Col. Bedetti ed il LXXVIII Btg. Coloniale agli ordini del Capitano Carbone.

COLONIALI 9Molti furono anche i caduti, come il Maggiore Deodato, Medaglia d’Oro al Valor Militare, che cadrà in combattimento nel giugno 1941 al comando del VI Btg. Eritreo.

Nel corso degli anni in cui l’Italia ebbe possedimenti oltremare si delinearono, al comando delle truppe indigene, leggendarie figure di “Alpini coloniali”, come loro stessi amavano chiamarsi.

Ne è un esempio il Capitano Vasco Agosti, che aveva iniziato il suo servizio coloniale nel 1923 nel III Btg. Eritreo col quale aveva preso parte alle operazioni di polizia in Cirenaica; inviato poi in Somalia per le azioni in Migiurtinia, a Obbia e Nogal; nel 1929, promosso Maggiore, viene posto al comando del 3° Gruppo Sahariano operante nel deserto Libico e dopo una breve parentesi nazionale al comando del Btg. Alpini Susa, ritorna in Libia a comandare il 5° Sahariano. Nel 1934 lo ritroviamo al comando di un Gruppo Bande in Eritrea e poi a capo del III Btg. Eritreo, con il quale combatte in Africa Orientale nella guerra contro l’Abissinia e successivamente in operazioni di controllo del territorio dell’Amhara. Cadrà nel 1937, colpito a morte, alla testa dei suoi ascari durante un combattimento a Rarati, mentre, ormai Tenente Colonnello comandava “ad interim” la III Brigata Coloniale. Alla Medaglia d’Argento al Valor Militare ed alle quattro Croci di guerra al Valore già guadagnate da Agosti, si aggiungerà anche la Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa alla memoria.

Altra figura esemplare fu il Tenente Pietro Farello, già facente parte delle bande del Capitano Rolle in Somalia: egli organizzò nel 1936, da Capitano, il Gruppo Bande Uollo; nel 1937, promosso al grado superiore per merito di guerra, comandò il Gruppo Bande Uollo-Ambassell, che dalla base di  Dessiè, operarono ininterrottamente nel Ghelesot-Lasta, nelle regioni di Mens, Ajafegg e Marabetie, in Goggiam, nell’Ancoberino, nello Scioa, nel Belesa e nel Baghemeder. Al comando del suo Gruppo Bande partecipò anche alla Seconda Guerra Mondiale, combattendo a Metemma e Celga e poi nella difesa di Gondar nel caposaldo di Debra Tabor (luglio 1941). Promosso Generale di Corpo d’Armata nel dopoguerra, Farello ebbe due promozioni per merito di guerra, tre Medaglie d’Argento ed una di Bronzo al Valor Militare, la Croce dell’Ordine Militare di Savoia ed una Croce di Guerra al Valore

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Dei reparti comandati da Farello fecero parte molti ufficiali Alpini che, a testimoniare la capacità ed il valore del comandante, si distinsero anch’essi in modo esemplare ricevendo un’impressionante serie di decorazioni: ricordiamo il Tenente Marcello Pucci (Medaglia d’Oro al Valor Militare) caduto nel Goggiam nel 1937; il Tenente De Grossi che guadagnò una Medaglia di Bronzo al Valore Militare e due Croci di Guerra; il Tenente Piatti, quattro volte decorato al Valore; il Tenente Gremigni (Medaglia d’Argento al Valore) ed il Tenente Falco, promosso per merito di guerra e decorato con due Medaglie di Bronzo al Valor Militare e due Croci di Guerra.

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Molti saranno anche gli ufficiali dell’Artiglieria da Montagna che comandarono reparti di Artiglieria coloniale che, per il loro utilizzo sulle aspre ambe africane, utilizzavano per lo più pezzi da montagna, scomponibili e someggiabili su muli. Gli ascari d’Artiglieria, oltre a portare come fascia distintiva quella del colore giallo dell’Arma,  portavano con orgoglio sul loro tarbusc proprio il fregio metallico dell’Artiglieria da Montagna.

Per ultimi, ma non per importanza, non possiamo non citare anche tre altri ufficiali degli Alpini che, già noti per le loro storiche imprese in altri contesti ormai entrati nella Storia delle Penne Nere, poi transitarono anch’essi al comando di truppe coloniali indigene: Alfredo Patroni, Gennaro Sora e Alessandro Tandura.

Alfredo Patroni, Tenente del Btg. Intra del 4° Rgt. Alpini, e poi, da Capitano, al comando del Nucleo Volontari Allievi Ufficiali Alpini, nel conflitto 1915-18 fu uno dei più noti ufficiali a combattere in quella che sarà poi chiamata la “Guerra Bianca”: in Adamello si distinse sulla Lobbia, sul Crozzon di Fargorida, sul Corno di Cavento, sul Presena e ai Monticelli, restando quattro volte ferito e guadagnando 3 Medaglie d’Argento al Valore e 3 di Bronzo. Richiamato nel conflitto italo-etiopico nel ’36, dopo quella guerra si stabilì in Etiopia e nel 1940 fu nuovamente richiamato in servizio attivo come comandante del CVI Btg. Coloniale, col quale combatté sul confine sudanese. Prese poi parte alla difesa di Cheren e, catturato dagli Inglesi, morirà in prigionia in Egitto nel 1944. Nel 1954 la sua salma verrà recuperata dal Maggiore Paolo Caccia Dominioni e traslata presso il Sacrario militare italiano di El Alamein.

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Gennaro Sora era divenuto famoso da Capitano, nel 1928, per aver comandato alcuni Alpini aggregati alla spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord; in quella spedizione fu duramente impegnato in prima persona nelle ricerche dei superstiti del dirigibile Italia, tanto da essere poi soprannominato il “Capitano del Pack”. Sora, dopo aver comandato, da Maggiore, nel 1937, il Btg. Alpini Uork Amba e poi il XX Btg. Coloniale, nel 1939 sostituì Pietro Farello ( di cui abbiamo già accennato) al Gruppo Bande Uollo-Ambassel e, dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, vi partecipò comandando gli ascari del suo vecchio XX Battaglione, coi quali difese strenuamente Passo Marda fino a quando non fu costretto ad arrendersi ai britannici.
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Infine Alessandro Tandura, che durante la Grande Guerra fu il primo paracadutista militare italiano: lanciato dietro le linee nemiche durante la battaglia di Vittorio Veneto nel 1918, raccolse preziose informazioni sulle forze avversarie ed eseguì azioni di sabotaggio contro le linee di rifornimento austriache, guadagnando la massima onorificenza al Valore. Tandura, che diventerà Alpino solo all’atto della sua nomina in servizio permanente effettivo nel 1922 (durante la Grande Guerra era ufficiale degli Arditi), nel gennaio 1925 partì per la Libia in forza al XXI Btg. indigeni eritreo-misto. Il 7 luglio 1926 fu ferito ad una gamba in combattimento a Uadi el Kuf, meritando una MAVM. Rientrato in Italia e promosso Capitano nel 1931 per meriti eccezionali, nel 1934 andò volontario in Somalia, partecipando a varie azioni; il 25 aprile 1936, in un aspro combattimento a Birgot venne ferito a un occhio guadagnando un’altra MAVM e la promozione a Maggiore per meriti di guerra. Dopo una breve licenza nel maggio 1937 tornò a Mogadiscio, dove per un malore morirà il 28 dicembre.

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Terminato il “sogno” coloniale italiano con la fine del Secondo conflitto mondiale, è infine doveroso ricordare la partecipazione di alcuni ufficiali e sottufficiali degli Alpini - nuovamente al comando di ascari- alla riorganizzazione dell’esercito somalo durante il periodo dell’AFIS, l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia.

Iniziata il 1° aprile 1950, questa nostra ultima avventura coloniale vide ancora affidati agli italiani (con la risoluzione ONU n°289) la preparazione delle Forze Armate e dell’apparato governativo della nostra ex colonia nel Corno d’Africa, che verrà transitata verso la definitiva indipendenza nel luglio 1960.

© Stefano Rossi - 2022